Da poco è morto un filosofo, Miguel Abensour, che ha sempre tenuto in grande considerazione l’utopia, basti pensare che uno dei suoi ultimi libri si intitola L’Homme est un animal utopique. In un tempo in cui si è parlato e si continua a parlare della “fine della storia” e in cui predomina il decostruzionismo, in cui si apparenta l’utopia ai disastri e ai massacri atroci della prima metà del Novecento, Abensour ha celebrato invece il valore dell’utopia prendendo le mosse dalla “immagine di sogno” di Walter Benjamin, sottolineandone la complessa ambivalenza. Per Benjamin il sogno non è “un portatore alato e aereo di felicità originarie” bensì una commistione di “immagini di desiderio infrante” e di “immagini mitico-arcaiche” da cui il soggetto deve riuscire a prendere le distanze grazie al pensiero critico. Nella società dei consumi le immagini del desiderio si manifestano nel valore fantasmatico delle merci e nella seduzione simbolica della moda. Non è possibile respingerle in toto, perché la loro seduttività promette gioia e pienezza. Non è però pensabile accettarle per quello che sono, giacché la fantasmagoria delle merci abbaglia e conquista solo fino a nuovo ordine: la nuova versione dell’iPhone, al pari della nuova stagione della moda, farà ineludibilmente dimenticare quanto l’anno precedente ci era apparso irrinunciabile e meraviglioso. Il lavoro da compiere è quello di interpretare le immagini del desiderio, trasformandole in immagini dialettiche, identificando il feticismo incantatorio delle merci, spezzando il nesso dell’onirico e del mitico e accedendo al risveglio storico, allo schiudersi di un desiderio di più ampio respiro che ci permetta di immaginare e perseguire un mondo migliore.