La sensazione, in verità qualcosa in più di una semplice sensazione, è che il nuovo codice dei contratti pubblici, che da qualche giorno conosciamo come D.Lgs 36 del 31 marzo 2023, aprirà a breve una pagina non edificante per l’Architettura italiana. E davvero non ne avevamo bisogno.
Sia chiaro, non sono tollerabili i tempi che sino ad oggi hanno caratterizzano la realizzazione delle nostre opere pubbliche. Ma non perché non siano “europei”, ma perché non giustificabili se non in ragione di un livello di burocratizzazione che ha ormai condotto ad incredibili vette di “bizantinismo”. E di burocrazia questo paese sta morendo, neppure troppo lentamente.
È sacrosanto il principio di lotta alla c.d. burocrazia difensiva, ma la strada per perseguirlo non pare francamente bene imboccata.
Se da un lato salutiamo con soddisfazione il ripristino dell’equo compenso, ritroviamo con tristezza le prestazioni d’opera dei professionisti a titolo gratuito. Si, “in casi eccezionali” e “previa adeguata motivazione” (art. 8, comma 2, che reca titolo “…Divieto di prestazioni d’opera intellettuale a titolo gratuito”…quanta ironia), ma l’eccezionalità in questo paese dovrebbe essere oggetto di specifico studio, tanta è la facilità con cui diviene prassi, ove non norma. Per non parlare della “donazione di prestazioni rispondenti all’interesse pubblico senza obbligo di gara” (comma 3 del medesimo art.).
L’appalto integrato. Torna tra di noi quel cerbero che impone ai professionisti di soggiacere alle “necessità” delle imprese. Ci tocca rimpiangere il vecchio codice che lo vietava esplicitamente ove l’elemento tecnologico o innovativo delle opere oggetto non fosse nettamente prevalente sotto il profilo dell’importo complessivo.
Sia chiaro, tutto lecito, ma se è vero come è vero che “con la sua attività, il Professionista …concorre alla realizzazione e tutela dei valori e degli interessi generali” (preambolo al codice deontologico). Se è vero ancora che la stessa A.N.C.E. ha a suo tempo espresso perplessità sull’utilizzo indiscriminato di questa pratica, allora forse si poteva, ove non si dovesse, quanto meno limitarne l’utilizzo a fattispecie di particolare carattere tecnologico.
Avevamo con fatica trovato la via per fare crescere i giovani talenti attraverso il concorso di progettazione in due fasi. Nulla più, se non per casi adeguatamente motivati dalla pubblica Amministrazione (art. 46, comma 2). E, contrariamente a quanto attinente la gratuità delle prestazioni professionali, le possibilità che a questa eccezione si vada consolidando in prassi paiono davvero scarse.
Insomma tramonta in Italia anche la speranza di fare crescere nuove generazioni di architetti che possano rinnovare il prestigio dell’Architettura Italiana. Torniamo a fatturati, numeri di dipendenti, ecc..
A fronte di quale speranza un ragazzo di talento dovrebbe restare in questo paese? Fare il disegnatore sottopagato nello studio di qualche barone? Uno di quelli che hanno fatturati e dipendenti a sufficienza per potersele aggiudicare le gare? Si certo una prospettiva allettante ma, forse, non abbastanza per ragazzi che alla qualità dell’Architettura hanno dedicato la propria vita ed oggi la trovano in questa sede totalmente assente (l’enunciato dell’art. 41, comma c, pare davvero poca cosa).
Il D.U.R.C.. Ma in tempi come questi è plausibile tagliare fuori dal mercato quella fetta di professionisti che per restare vivi in pandemia non ha potuto pagare i contributi? E magari erano anche a credito verso Pubbliche Amministrazioni che non sono egualmente vincolate ai propri pagamenti. Ma sarà tempo che fattivamente ci si interroghi su cosa sia il mercato oggi e su quali siano le strade per riattivarlo? Non possiamo semplicemente lasciare lavorare i professionisti ed, ove in debito verso l’Ente previdenziale, sia il r.u.p. stesso a decurtare proporzionalmente le competenze e saldare il debito?
Sarà opportuno fermarsi qui anche se ben ponderosi sono i temi che nel corso di questa gestazione abbiamo sollevato insieme a tutti gli Ordini italiani (la riduzione/diversa distribuzione dei livelli di progettazione, le soglie, i subappalti, ecc.) sebbene, a dire il vero, poche sono state le risposte che abbiamo trovato nel testo del 31 marzo.
La speranza è che da qui al 1° luglio e ben oltre, si apra un periodo di riflessione all’interno del quale ci sia il coraggio di trattare con onestà quegli aspetti che poco convincono e che, purtroppo non hanno trovato soddisfazione nel testo appena licenziato.
I nostri prossimi anni saranno scanditi dal nuovo codice ed il futuro di questo paese sarà determinato da quello che in questi anni di P.N.R.R. riusciremo a produrre.
Ci perdonerà chi di dovere se per noi architetti il principio del risultato non si limita alla massima tempestività ed al migliore rapporto tra qualità e prezzo. Il nostro principio del risultato lo avete davanti agli occhi, osservando le mura dietro le quali è stato congegnato questo codice. Palazzo Madama, sede del Senato, opera dell’arch. Giuliano da San Gallo. Palazzo di Montecitorio, sede della Camera dei Deputati, opera dell’arch Gian Lorenzo Bernini. Palazzo Chigi, sede del Consiglio dei Ministri, opera dell’arch. Giacomo della Porta.
Tra molto meno dei circa 500 anni che ci separano da quei capolavori saremo qui a valutare i risultati delle scelte di oggi, ma la strada segnata non pare quella giusta.
Si, abbiamo evidentemente una diversa interpretazione del principio del risultato.
Il Presidente e Il Consiglio dell’Ordine degli Architetti PPC della prov. di Catanzaro
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